Ricordo di mio cugino Michele Valori 

di Alberto Maria Fortuna 

Tra la libreria delle guide e delle storie locali e quella della religione, accanto alla finestra lo zio Aldo Valori per anni mi ha sorriso in un modo enigmatico, il cranio quasi calvo. Un sorriso appena nascosto dalle lenti a pince-nez, montate con un filo d'oro, e da una tenue coppia di baffetti. Un cappuccio di stilografica emerge dal taschino insieme alla cocca di un fazzoletto, candida sulla giacca scura a righe dove, all'occhiello, luccicano due distintivi. Insomma, una testimonianza iconografica che è anche un espediente decorativo necessario per l'armonia dell'arredamento e un monumento di aristocratica compostezza per esaltare lo scrittore gentiluomo (usava piccole ghette chiare; due soli ne ho visti in tanti anni, con quell'attrezzo: lui e il principe don Tommaso Corsini).

Un pezzo della casa, questo ritratto. Difatti l'ottima fotografia, in cornice laccata di ciliegio, completava la biblioteca del babbo come un particolare in apparenza trascurabile ma di fatto essenziale, come tutti i fenomeni indispensabili. Un'ottima foto, con in calce, sul margine bianco, un'attestazione accuratissima delineata dalla mano dello stesso fotografo: “Michelinus fecit Anno Domini 1934”. E questa era quasi una profezia: quell'opera, nata da un ragazzo undicenne, rivelava un'innegabile attitudine alla composizione, stretta collega della migliore architettura (anzi, dell'architettura in assoluto). Gli anni, non per nulla, hanno trasformato quel precoce fotografo in un maestro dell'arte e nella scienza architettonica e urbanistica.

Per farla corta quella foto di Michele Valori mi ha accompagnato, all'insaputa del suo ben noto autore, dal tempo della mia nascita (quel 1934, appunto), riuscendo a incuriosirmi fin dall'età della ragione. E poi c'era quel Michelinus a sconcertarmi: dimostrava infatti che, fin dai primordi, Michele non solo non aveva subìto la sua statura (era alto pressappoco come Vittorio Emanuele III), ma non aveva nessuna remora a scriverlo, forse quasi per esorcizzare quel fatto. E' sicuro, in ogni modo, che Michele in casa mia c'è stato poco perché ci bazzicava ogni morte di papa e quando ci veniva non dava certo retta a me, uno qualsiasi degli innumerevoli parenti e con molti anni di meno. Quando compariva lo faceva di solito in compagnia dello zio: e tutti e due, nello studio tappezzato di libri, si mettevano senz'altro a discutere col mio babbo con accorate variazioni sul tema delle ultime vicende soprattutto artistiche italiane e romane in particolare (sfoghi contro l'imperversare dei palazzinari e il caos edilizio; il progetto di risanamento dei Sassi di Matera, la cranioteca medicea del Pieraccini che lo zio definì senz'altro, mi pare sul Corriere della sera, una bischeroteca e così via). Ma se le sue visite eran rare, da noi arrivava però, e con dovizia tramite la carissima zia Etre sorella della mia mamma, un'eco quasi palpabile dei suoi successi che erano concreti ed – è proprio il caso di dirlo – costruttivi, anche se magari Michele ci credeva poco per via di uno scetticismo o meglio di un pessimismo pratico che non si curava di nascondere.

Una sua memorabile apparizione si ebbe un giorno in via Benedetto Varchi, a Firenze: un casone giallo marroncino a piani tra il gusto dannunziano e il Liberty, tirato su con uso abbondante di longarine, (che non si vedevano) e di cornicioni ed elementi decorativi (che si vedevano anche troppo).Davanti ai nostri pavimenti in mattonelle variopinte e lucide, a figure geometriche di quattro o cinque modelli diversi anche nella forma, Michele cominciò a dare evidenti segni di eccitazione e, con esclamazioni di meraviglia, girò per tutta la casa con un'allegria e un'energia incredibili (volle vedere perfino il bagno e il ripostiglio e l'enorme cucina di ghisa nera unta, coi maniglioni e i passanti d'ottone che sembravan d'oro) prendendo schizzi e soffermandosi a considerare cerniere, serrande, borchie, fregi tinti a stampino e quanto altro poteva fornire quell'antologia di una moda borghese dei primi del secolo e che gli tornava utile per chissà quale progetto. Poi ispezionò professionalmente lo studio, proprio quello dov'era esposta per la quarta volta (tanti erano stati i traslochi nell'arco di vent'anni) la sua ricordata fotografia e rassicurò il mio preoccupato genitore sulla stabilità delle strutture dell'edificio, perché il padron di casa, che a cicli ricorrenti si attaccava volentieri e invano agli specchi pur di buttarci fuori e che, con una furbizia sopraffina, tentava tutti gli espedienti per raggiungere quel fine perverso, sosteneva che tutti quei volumi potevano far crollare il palazzo (ignorava forse che molti libri sono assimilati al materiale da costruzione per la loro dottrinaria qualità di mattoni e perciò in casi estremi dovrebbero perfino rinforzare i muri).

Un'altra volta, qualche anno dopo, eccolo a San Martino sotto la Falterona, tra le montagne. Gli era chiesto di ingrandire la nostra casa, in cima a uno sperone scosceso. Michele ispezionò tutto, discusse con Elio e con Andrea – i miei fratelli ispiratori dell'impresa – e, dopo non molto, ci mandò un progetto completo che, a quanto rammento, era di un avvenirismo inaudito per la mia mentalità e per quei luoghi classici e sacri alle memorie etrusche, dantesche e rinascimentali. Infatti, ristrutturato con molto rispetto il vecchio nucleo contadino – che vecchio non era perché l'edificio era stato rifatto con le antiche pietre dopi il terremoto del 1919 – aveva aggiunto una serie di ambienti ultramoderni (acciaio, vetri e così via), quasi un chiuso portico che, con un percorso non rettilineo (a zig-zag) verso la ripa e la valle a sud, guardava la montagna come ad abbracciarla con le due ali a est, mentre le spalle erano protette dalla collina a nord-ovest e perciò al riparo dalla tramontana. Il tetto, se ben ricordo, formava una lunga terrazza che faceva tutt'uno e si univa naturalmente e senza scalini con il grande prato della sommità del poggio, dove in antico era stato un castelletto e una chiesa. Dunque, un utilizzo geniale del terreno, nel rispetto dell'ambiente e fatto anche per permettere nuove aggiunte. Purtroppo, sul più bello, i fondi non arrivarono e il progetto rimase nel limbo delle buone intenzioni.

Con il disegno per San Martino si capì che Michele amava costruire con mezzi e vedute nuove in ambiente classico. Non smentiva le sue radici fiorentine, anzi fiesolane, ma non smorzava neppure quel suo modo di guardare avanti, di anteporre l'utilità generale – ecco la sua passione per l'urbanistica – ai vecchi canoni estetici. In architettura vedeva lontano: era presbite piuttosto che miope anche se una volta che ero di passaggio da Roma mi fece vedere, di volo e in un momento di abbandono commemorativo, insieme a qualche struttura del suo amato Borromini, la facciata dell'antico capolavoro di Baldassarre Peruzzi, il palazzo Massimo alle Colonne, e mi confermò con un pizzico d'ironia quanto già la Chiara, una delle sue sorelle, mi aveva insegnato: che mentre i fiorentini chiamano colónne quelle del Brunelleschi i romani dicono colònne quelle del Bernini a piazza San Pietro (per via dell'entasi molto più massiccia).

Mi son lasciato travolgere da questa spolverata di ricordi, buttati giù a caldo dopo aver letto con una curiosità che non provavo ab immemorabili, e letto fino all'ultima riga (risvolti compresi), quel volume con alcuni scritti di Michele – Posta fatta in casa – che sua moglie Valentina ha scelto per amore, per seguitare a essergli vicina e per farlo conoscere meglio. Mi son convinto che la raccoglitrice – forse sarebbe meglio dire l'autrice d'elezione per l'evidente consonanza e armonia con quel che ha pubblicato del marito scomparso all'improvviso nel 1979 – non è stata forse del tutto consapevole di quanto sia riuscita a fare: cioè un ritratto dal vivo, che parla (proprio con quell'erre francese) tagliando e cucendo alla fiorentina, che ci guarda quasi canzonatorio con occhi a spillo, e scatta e scintilla e a volte perde le staffe. Insomma una persona vera, autentica, con pregi e difetti e che ha assimilato dalla cultura i mezzi per esprimersi senza rimanerne vittima.

A leggere ci si aspetta d'incontrare il cattedratico, il maestro, l'innovatore, il pioniere che si inoltra su strade ignote. Certo, tale è una parte della storia, ma subito ci si imbatte in un diarista spigliato e coraggioso – uno spirito mordace e ricco di estro che descrive con un tratto luoghi ed emozioni, un bozzettista arguto e corrosivo – per non dir poi dell'uomo in ogni sua latitudine: euforico, tenero, critico, sdegnato, crudo, idealista, saldo nell'opinione ma anche sincero nel confessare dubbi e debolezze. Insomma, un carattere reso tanto più interessante quanto più riesce a vivere, come in questo caso, nell'ambiente stimolante della famiglia Valori (padre celebre storico e giornalista, madre scrittrice, un fratello scrittore storico e un altro sapiente gesuita, una sorella notissima attrice e via dicendo).

Alcune note, prese al volo dal libro. Questa sarebbe piaciuta a Longanesi: “25 giugno [1956] Pittsburg – Incontro finalmente Mr. Tronzo. Era un pezzo che volevo conoscere quest'uomo coraggioso che ha saputo vivere nonostante il suo nome”. E cinque giorni dopo, da Filadelfia: “L'intellettuale americano è un individuo molto astratto, estremamente tormentato. Non riesce a liberarsi dell'America e vorrebbe. Si vergogna di non poterci capire e ci invidia la nostra sciatteria e il nostro scetticismo. (…) Pensano che gli Europei, come sono riusciti a impadronirsi di una parte dei loro soldi, tentino ora di sottrarre loro l'intimità intellettuale. Ma poiché la riconoscono debole e approssimativa, si nascondono tenacemente”. O quest'altra, del 1963: “Peccato che la nonna delle mie figlie non possa essere che la nonna di se stessa”. Accanto a questa fanfara scanzonata, ecco un appunto del 23 giugno 1963, al polo opposto: “Chiedo oggi con tutta la forza del mio cuore, con tutto l'impegno della mia mente, la grazia divina di essere fedele a quanto l'anima mia predilige e ha scelto. Chiedo anche che il mio lavoro quotidiano, così stupido, così ristretto, così umano, legato alle cose, agli oggetti, alle faccende degli uomini indaffarati, possa elevarsi a virtù di spirito. Attraverso di essi vorrei poter testimoniare nei limiti miei, nell'umiltà, le verità che amo, che sono mie, ma che vorrei fossero di tutti”. Il tema spirituale suona ben chiaro anche nel rapporto con la moglie, che si compiace di rimirare a suo modo (come in quell'alfabeto che è un espediente per tratteggiarne un ritrattino affettuoso, canzonatorio), sicché si capisce che è una donna fatta proprio per un Michele grato e tanto entusiasta che dovunque, dalle pagine, la fa emergere come un arcobaleno dopo la pioggia.

Molto bello un appunto sulla maternità, che ha appesantito l'andatura della Valentina: “Pensare “prima” ai figli è irreale, non si sa che cosa sia un figlio. Un figliolo è la nostra privata conferma del grande mistero della vita. Si osservano queste creature venute dal cosmo per causa tua, per volontà tua e vi riconosci una parte di infinito, di trascendente, che ti appartiene anche fisicamente, in forma tangibile. Posso toccare una creatura che è a metà, a mezzadria tra me e Domineddio. Che cosa meravigliosa, divina, la paternità”.

La pioggia che ha evocato l'arcobaleno è stata, talvolta, tempesta. Quanti sfoghi: sulla professione, sulla politica, sulla spregiudicatezza di un mondo chiuso ed egoista.Una confessione amara è del giugno 1969. Afferma: “vincono sempre i bisonti, i rinoceronti, gli ippopotami. Compio 46 anni. Non dico nulla perché tutto sarebbe sciocco. Errori, buone cose, conquiste, successi, nulla hanno a che fare con l'età. Io ho ancora 16 anni, sono ingenuo, debole, fantasioso, illuso, come 30 anni fa (1939). L'età della pietra. (…) Il mio destino è sempre quello di essere chiamato per ornamento. Un architetto dovrebbe essere un uomo capace di impadronirsi di un problema, proporre una soluzione, farla accettare, eseguire, realizzare. Noi invece proponiamo: nulla è mai realizzato, anche se accettato formalmente. Siamo degli impotenti”. E subito, dopo aver accennato al turbamento della coscienza nazionale (“la piccola e media borghesia non vuole il fascismo, sa che non può desiderare un rigurgito autoritario perché l'ha provato. Tuttavia lo rimpiange, e vorrebbe non averlo avuto per poterlo avere ora”), ecco seguire una profezia di una chiarezza inaudita: “La collaborazione tra comunisti e cattolici è già in atto per la costruzione del neo-capitalismo socialista (e piccolo borghese)”.

Arricchiscono il volume inconsueti disegni dell'autore: e tra questi una bella autocaricatura (ottima, anzi, da far concorrenza addirittura a quelle che, temporibus illis, produceva Enrico Caruso in persona quand'era in vena di scherzare) e letterine figurate alla moglie e alle tre figlie. Il volume ha una prefazione di Masolino D'Amico, una Nota introduttiva di Arnaldo Bruschi, una Postfazione di Leonardo Benevolo e si chiude con una relazione di Margherita Guccione su “L'archivio di Michele Valori a Monterotondo (Roma), che è “fonte preziosa della storia dell'architettura e dell'urbanistica in Italia” e, come tale, notificato.